Perché l’arte è un Incontro: dialogo con il Maestro Francesco Zavatta

Francesco Zavatta (Rimini, 1986), è un artista contemporaneo che, dopo aver studiato a Venezia, nel 2012 si è trasferito a Milano. Tra febbraio e marzo, è stato protagonista di una mostra d’arte allestita nella sede di via Festa del perdono della Statale.

Lo avevo promesso – ormai tempo fa con l’articolo: Quell’intervista a San Vittore Olona – che prima o poi l’avrei intervistato. Ebbene: il momento tanto atteso è arrivato.

È Zavatta che ha cercato Milano o Milano che ha cercato Zavatta?

Diciamo che è stato il destino a condurmi qui, a Milano, tramite la conoscenza di mia moglie. È stato un motivo amoroso.

E che rapporto ha con questa città?

Guarda, con Milano non è stato proprio amore a prima vista. Sono nato a Rimini, e ho sempre vissuto l’aria del mare: abituato a questi orizzonti aperti, venire qui a Milano non è stato molto semplice. Poi ho iniziato a girarla al mattino presto: vedendola con le luci dell’alba, ad un certo punto, sono rimasto colpito da questi fili dei tram che mi facevano alzare lo sguardo verso il cielo. E così ho iniziato a dipingerla: inizialmente i palazzi erano più scuri, in bianco e nero, ma poi, a furia di lavorare, è venuto fuori il colore.

Colori molto accesi, vivi.

Più mi sentivo a mio agio, più il colore diventava luminoso. Portavo dentro la tela la vita che mi sorprendeva.

Lei dipinge in studio, con le fotografie, o anche all’aria aperta?

Il mio lavoro inizia mentre cammino per la città: faccio delle fotografie che poi seleziono in studio. C’è poi tutta una fase di analisi del colore, ma parto da lì: dalle fotografie.

Che significato hanno, per lei, questi fili dei tram che attraversano la città?

Lo descrive bene la canzone Le Rondini di Lucio Dalla: “vorrei entrare dentro i fili della radio, volare sopra i tetti della città e mescolarmi con l’odore del caffè.” Secondo me è un incipit bellissimo di quello che è Milano: quei fili hanno permesso, a me, di mescolarmi con la frenesia di questa città.

Quindi questi fili non sono un disturbo per lei? Qualcosa che l’allontana dal cielo?

No. Questi fili sono degli amici, un simbolo di apertura talmente piccolo – perché il filo è una cosa sottile sottile – ma che per me è molto grande. Attraverso questi fili, è come se riuscissi a non rimanere dentro di me e basta.

Il Maestro Nino Attinà, che quest’anno ha tenuto una conferenza sul rapporto arte-sofferenza in Statale [Arte e sofferenza: la parola al Maestro Nino Attinà], ritiene che il prerequisito per fare arte è la sofferenza. Quando gli chiesi se si può fare arte senza sofferenza, partendo da sensazioni felici, lui mi rispose che è solo tramite la sofferenza che si può fare arte, e che tutto ciò che non parte dal dolore è illustrazione. Lei è d’accordo?

Su certi aspetti sì, perché per fare tue delle cose devi spostarti da te provando quindi una forma di sofferenza che io vivo molto positivamente. Devi scavare, faticare per far tua quella cosa, quella tensione verso il bello. Una tensione, un sacrificio, che viene pienamente vissuto dall’artista che vuole dare al mondo un messaggio. Io penso di dare un messaggio positivo, anche attraverso l’uso dei colori, del dinamismo, che rappresenta la bellezza oggettiva di questa città. Non è qualcosa che vive solo dentro me, ma anche dentro gli altri.

Essere artisti nel 2022. Si può vivere della propria arte anche ai giorni nostri?

Per me è stata una fortuna grande che ho ricevuto. Capisco che, sì, non è scontato fare questo come lavoro. Sicuramente ho fatto del mio: a volte, è vero, non basta crederci. Prima di tutto ci deve essere un talento che non t’inventi tu, ma che è qualcosa di oggettivo che gli altri possono riscontrare. Io ho sempre creduto molto nelle relazioni: ciò che io faccio deve parlare a tutti. Il dialogo con chiunque, dai critici agli amici, è una cosa che mi ha sempre dato conferme positive, permettendomi di vivere della mia arte.

Quindi, per sopravvivere, bisogna anche trovare un compromesso con il pubblico?

Prima di tutto, secondo me, è importante aver chiaro che cosa vuoi tu, in modo tale che la gente possa vedere dentro di te una direzione. Io ho sempre scelto molto liberamente i miei soggetti, perché credo molto in alcune cose, come per esempio i fili dei tram. Non parto da quello che la gente mi chiede, e le domande che mi arrivano dal pubblico vengono sempre da qualcosa che hanno visto in me.

Qual’è la prima sensazione che si prova quando si finisce un’opera?

Non mi capita mai d’avere un momento preciso in cui finisco l’opera, perché è una cosa misteriosa. Per non fermarmi all’aspetto emotivo, faccio passare volutamente qualche giorno per vedere se, a distanza di tempo, il mio lavoro mi suscita ancora le stesse emozioni. Quando capisco d’aver finito, comunque, l’unica cosa che provo è lo stupore: in quel momento capisco che l’arte è qualcosa che va oltre a me.

Una delle cose più belle del suo lavoro?

Che non è una cosa solo per me, che è più grande di me. Perché l’arte è un incontro.

Alessandro Frosio

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