Giusto processo o processo giusto? Il caso O.J. Simpson

In occasione dell’inizio dell’anno accademico, i ragazzi e le ragazze di Obiettivo Studenti di Giurisprudenza hanno organizzato due incontri pensati per introdurre le matricole, appena arrivate in Festa del Perdono, allo studio del diritto.

Il primo di questi incontri si è svolto lo scorso 29 settembre presso l’aula crociera alta di giurisprudenza con a tema il caso del giocatore di football americano O. J. Simpson, famoso processo penale relativo all’accusa nei confronti del giocatore americano dell’omicidio dell’ex moglie Nicole Brown Simpson e del cameriere Ronald Lyle Goldman, avvenuto il 12 giugno 1994, conclusosi con l’assoluzione del giocatore.

Riportiamo di seguito l’intervista a Pietro Danese, uno dei ragazzi che ha curato la presentazione.

Pietro, com’è nata l’idea di questo incontro?

L’idea di presentare il processo di O. J. Simpson è nata un po’per caso. All’inizio pensavamo di affrontare il tema dei rapporti tra media e processo. Poi, dopo esserci trovati a discuterne, abbiamo capito che per le matricole questo, come primo approccio al diritto, non sarebbe stato molto immediato.

Tra i casi famosi che avevamo in mente è venuta fuori quello di O. J. Simpson, abbiamo ricostruito la vicenda e nel farlo è sorto un bel dialogo tra noi e sono emersi diversi temi interessanti legati strettamente al diritto.

Quali sono questi temi?

Quando un processo è giusto? Cosa vuol dire condannare solo quando si è convinti ogni oltre ragionevole dubbio? E questo criterio è corretto? Il diritto è qualcosa che si può manipolare? È il diritto che decide come devono funzionare le cose o è la realtà che genera il diritto? Tutti temi presenti nel caso di O. J. Simpson e che sono emersi da subito in maniera evidente.

Anche nel dialogo coi ragazzi del primo anno ricorreva spesso il rapporto tra “giusto processo” e “processo giusto”. In sintesi, come definiresti l’uno e l’altro? Possono stare insieme? In che modo? Infine, nel caso in questione, si può parlare anche di processo giusto o solamente di un giusto processo dal punto di vista procedurale?

Cercando di definirli in maniera sintetica è possibile dire che per giusto processo s’intende quel processo che si svolge correttamente, secondo le regole procedurali prestabilite dal legislatore; il processo giusto, invece, è quello in cui si arriva a un risultato che per l’uomo è giusto.

Nel caso in questione, questi due temi vengono fuori molto, perché è sicuramente possibile dire che il processo di O. J. Simpson è stato un “giusto processo”, perché le regole processuali sono state rispettate. Dare invece una definizione oggettiva di processo giusto è abbastanza impossibile perché ciò che è giusto per me non è necessariamente giusto anche per te. Per molti il processo giusto è quello dove si prende il colpevole e lo si “sbatte in prigione”, per altri quello in cui si arriva alla verità. Verità, tra l’altro, a cui il giusto processo tende. Le regole del processo esistono perché il processo stesso aspiri ad essere giusto.

Un altro aspetto rilevante, che si ricollega anche alla questione del “giusto processo- processo giusto”, è lo scontro tra giustizialismo e garantismo. Che differenza c’è? Quale dei due permette realisticamente di pervenire ad un provvedimento giusto?

Sicuramente il garantismo è l’unica via per arrivare a un giusto risultato, è l’unico strumento che permette di avere delle regole da seguire. Il giustizialismo è un sentimento umano, può essere un modo di vedere la giustizia, ma in fondo non può essere la modalità per risolvere col diritto le controversie: il diritto è la cosa più lontana dal giustizialismo. Solo in un sistema costruito intorno a istituti precisi, chiari, con regole e condizioni di applicazioni chiare e conoscibili prima che la partita si cominci a giocare, solo in un sistema del genere io posso ritenere che il risultato a cui arriverò, la verità a cui arriverò, quella che arrivo a chiamare verità processuale, sia tale. Questo è l’unico modo con cui tutti gli anelli della catena reggono fini ad arrivare alla sentenza. Il giustizialismo, al contrario, prende ognuno di questi anelli e lo fa saltare, tenta di soddisfare il bisogno di giustizia dell’uomo semplicemente strumentalizzando il diritto, snaturandolo.

Un commento finale: cosa consiglieresti, alla luce della tua esperienza, a un ragazzo che inizia questo studio, anche per capire se fa per lui o no?

Lo studio del diritto mi appassiona e, dopo cinque anni, i motivi per cui mi approccio allo studio oggi non c’entrano niente con quelli per cui all’inizio ho scelto di iscrivermi a Giurisprudenza.

Il diritto continua ad appassionarmi perché è una cosa estremamente umana, non può pensare di esistere se non in rapporto tra più soggetti umani. Il diritto non crea il rapporto tra le persone, esso è creato dai rapporti tra le persone; esso può definire un rapporto, può in qualche modo dargli un’esistenza su un piano giuridico, ma è il rapporto tra più soggetti che lo genera. Io potrei scrivere una bellissima opera letteraria e metterla in un cassetto e quell’opera esisterebbe, ma non posso pensare ad una norma di diritto e tenermela nel cassetto, quella norma, finché sono da solo, non esiste. Per questo è la materia meno arida e più umana che ci sia, perché in questa sua necessità, in questa sete di umano che ha, il diritto secondo me è straordinario, è una sinfonia perfetta di incastri logici che hanno sempre come denominatore comune l’uomo.

Mi affascina poter indagare il senso di ogni norma, cercane la ratio. Senza questo il diritto viene ridotto a semplice regoletta da imparare. Quello che augurerei a una matricola è quello di approfondire la conoscenza delle leggi scoprendo quanto di profondamente umano c’è in esse, il rapporto tra diritto e giustizia, lasciando che tutto quello che si studia sia occasione anche per scoprire sé.

Lucions

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