L’eremita socievole: la politica dell’amicizia

Il seguente articolo è frutto dell’interesse suscitato da una lezione di Storia del Pensiero Politico Contemporaneo, che mi sembrava opportuno condividere con i lettori.

Nel 1905 viene arrestato dagli zaristi dopo aver partecipato attivamente alla Prima Rivoluzione Russa. Viene liberato poco dopo grazie all’interessamento di Turati. Si reca in Germania, gira il paese a piedi e studia sociologia. Si trasferisce a Parigi poco prima della guerra, al suo scoppio si arruola volontario fra i francesi. Viene ferito.

Torna in Italia ed è di nuovo al fronte. Di nuovo ferito. Parla quattro lingue: italiano, francese, tedesco, russo. Il Corriere della Sera lo manda a San Pietroburgo per seguire i fatti della seconda Rivoluzione russa, quella del febbraio 1917. Non resiste e vi prende parte. Questa volta lo arrestano i comunisti: insopportabili le sue critiche al loro regime anti-libertario.

Liberato ancora una volta grazie all’interessamento di un’influente amica, si trasferisce in Italia. Siamo nel 1923, al governo c’è già Mussolini. Lavora per il Ministero degli Esteri, ma capisce presto che non tira una buona aria: si impegna in pubblicazioni antifasciste, espatria ancora una volta nel 1926. Destinazione Parigi.

Ma di chi stiamo parlando? Chi è questo folle girovago e avventuriero?

Andrea Caffi è un nome di cui sicuramente non avrai mai sentito parlare. Per forza, parlarne è difficile visto la stravaganza che ha caratterizzato la sua vita. Ma ad una lettura più attenta, la sua parabola esistenziale può costituire un esempio interessantissimo di teoria politica.

Caffi si definisce socialista per tutta la durata della sua esistenza. Giunge al socialismo per via empirica dopo una gita scolastica alle acciaierie Putilov di San Pietroburgo: le dure condizioni di lavoro degli operai lo portano spontaneamente a simpatizzare con loro. Resterà un anti dottrinario per il resto dei suoi giorni, tanto che non militerà mai per alcuna formazione politica definita. Il suo ideale politico, dunque, è frutto di un approccio pragmatico e diretto.

La giustizia sociale è la prima cifra della sua asistematica riflessione. Essa, poi, punta la lente d’ingrandimento sulla strenua difesa della libertà individuale. Ogni forma di totalitarismo e autoritarismo, allora, è inconcepibile per Caffi. Badate bene, però, non si tratta di quella assoluta libertà declamata dai liberali, vittima del culto della competizione sfrenata.

Il nostro, infatti, asserisce che la libertà deve essere garantita in quanto mezzo privilegiato per conseguire la felicità. Essa, inoltre, non può che passare da uno spiccato senso dell’umanità. Per comprendere il procedere logico della riflessione di Caffi, però, non possiamo ignorare di descrivere brevemente il suo stile di vita. Del resto, tutti i suoi articoli sono caratterizzati da una postura riflessiva induttiva, per cui fondati sempre sulla sua esperienza, con cui intrattengono un chiaro rapporto di coerenza.

Caffi, difatti, conduce un’esistenza “vagabonda”: cammina moltissimo, mangia poco, altrettanto poco gli interessa del denaro. Incontra tutti e con essi familiarizza. La sua indole è spontaneamente socievole. Gaetano Salvemini lo ha definito l’eremita socievole: in qualsiasi città o contesto politico si trovasse, è sempre solo a gironzolare, in attesa di incontrare qualcuno.

È questa sua prossimità con qualsiasi tipo umano, del resto, che gli salva la vita in due occasioni: la prima, come già accennato, quando la Babanov gli fa risparmiare la prigionia bolscevica, la seconda a Tolone, quando durante la guerra viene arrestato dai nazisti che lo credevano parte della resistenza; a salvarlo, questa volta, è un senza tetto con cui aveva condiviso diverse volte le fredde panchine della locale stazione dei treni, che testimonia in suo favore, descrivendolo alla stregua di un poveraccio come tanti altri.

Questa sua postura sociale spontaneamente aperta all’altro, indipendentemente dal suo ceto di appartenenza, lo porta a definire il secondo criterio cardine della sua riflessione politica: l’amicizia. Sarebbe essa a costituire l’unità sociale fondamentale: allo stato si sostituiscono delle comunità liberamente composte da amici che vogliono vivere assieme. È in questa possibilità che consiste la libertà caffiana: non tanto l’autodeterminazione individuale, quanto la possibilità di vivere accanto a chi ci fa felici.

Il presupposto del socialismo (che cela evidenti tratti anarchici) di Caffi, dunque, è un’antropologia positiva, una sorta di umanesimo che esalta le naturali qualità solidali degli individui. A rendere l’uomo antisociale ed egoista sarebbe, a suo avviso, proprio lo stato, autoritario o democratico che sia, perché in ogni tempo costrittore degli uomini in funzioni e paradigmi sociali che li allontanano dai desiderati amici, rendendoli – in definitiva – infelici.

L’ultima componente del pensiero caffiano è la decisa critica ad ogni forma di violenza: essa, non importa da dove arrivi o da cosa la motivi, non può che chiamare altra violenza, in un vortice inestricabile e incontrollabile, generatore di tutte le guerre.

Vi starete chiedendo che cosa c’è di particolare in quel che sembra un pacifista utopico come tanti altri nella storia. Il fatto originale è, come già accennato, che Caffi vive coerentemente sulla sua pelle tutto quello che afferma: la solidarietà che si concretizza in amicizia con tutti, la guerra combattuta e sofferta da cui emerge una riflessione profonda sulla sua radicale sconvenienza.

E voi, lettori clandestini, credete l’amicizia sia fonte di giustizia sociale? Ha ancora qualcosa da dirci il modello di quel matto di Caffi?

Favella

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