Incontro, intrattenimento, identità: cinquant’anni di rap

L’11 agosto del 1973 a New York nasce il rap. Come ogni fatto rivoluzionario, anch’esso scaturisce da un’idea dirompente nella sua semplicità. A differenza di molti fenomeni di portata analoga, però, il rap ha un luogo di nascita certificato e un creatore generalmente riconosciuto: il 1520 di Sedgwick Avenue e Clive Campbell, meglio noto con il nome d’arte di DJ Kool Herc.

Herc, abbreviazione dell’appellativo Hercules datogli per il fisico scultoreo, nasce a Kingston nel 1955 per poi raggiungere, con i genitori e cinque fratelli minori, nel 1967 la Grande Mela. I Campbell prendono casa nel Bronx, il quartiere a maggioranza nera della città. Tra fine anni sessanta e inizio dei settanta la situazione della zona è tragica. Gli afroamericani sono un corpo estraneo a New York, che li emargina e li vuole vedere sparire.

Disoccupazione e abbandono giovanile sono elevatissimi. I padroni dei condomini, per la maggior parte bianchi, spesso scelgono di incendiare i palazzi per incassare l’assicurazione, dato che gli inquilini neri in buona parte non riescono a pagare gli affitti. Gli incendi sono pratica abituale e concordata con gli abitanti, che preferiscono sperare di ricevere un’abitazione nell’edilizia pubblica.

Ma anche rivolgersi alle istituzioni non serve. Roger Starr, assessore all’urbanistica di New York negli anni 70, attua la politica del “planned shrinkage”. Una strategia semplice: per rendere la città più sicura bisogna obbligare gli abitanti delle zone disagiate a lasciare la città che non dorme mai tramite il taglio dei servizi essenziali.

Niente più acqua, gas, elettricità e ritiro della spazzatura. Il Bronx sembra una zona bombardata, con moltissimi palazzi in macerie tra le quali giocano bande di ragazzini, roghi continui e molte strade allagate per l’apertura delle condotte. Le gang di criminali imperversano inondando le strade di droga e violenza.

L’esclusione della gioventù di ascendenza africana si manifesta anche nella musica. La Big Onion nei Seventies è la Mecca della disco. Un genere dall’estetica azzimatissima ed elegante, che si balla in club costosi ed esclusivi. Roba da bianchi. Nulla in cui un figlio di immigrati poveri lasciato a sé stesso possa identificarsi. Ma la musica è fondamentale, per i giovani. Diverte e comunica chi si è.

Herc ne vive la mancanza sulla sua pelle, come tutti i ragazzi neri.  Prendono piede i block-party, feste organizzate artigianalmente nei condomini. Ci si va per ballare e fumare, e chi li appronta vuole tirare su qualche soldo. Non è solo evasione. Radunandosi si sostengono, proclamano di esistere, cercano la loro identità. Ed è proprio questa ricerca che fa nascere l’intuizione rivoluzionaria di Herc.

L’11 agosto 1973, al party al 1520 di Sedgwick Avenue, casa sua, il giovane DJ sceglie di suonare dischi soul posseduti dai genitori, ed è il primo. James Brown, The Jimmy Castor Bunch’s, Booker T & The MG’s. Neri che suonano per neri, parlando dell’essere neri. Il rap nasce spiritualmente da questa rivendicazione culturale, e materialmente quando Herc capisce che la parte dei brani più ballata è il cosiddetto break, dove la melodia scompare e predominano le percussioni.

Quindi prende due giradischi e due copie dei vinili che vuole usare. Sapendo la parte del disco a cui corrisponde il break, la fa suonare col primo, e una volta finita la fa partire con il secondo giradischi e riporta il disco precedente alla posizione iniziale, ripetendo l’operazione a oltranza. È nato il loop, base delle strumentali rap. Nel mentre il suo amico Coke La Rock con un microfono intrattiene la folla con frasi a tempo, facendola ballare. È il primo MC (Master of Cerimonies). Ancora oggi, l’essenza del rap è tutta qui.

Nella sua semplicità, ciò che DJ Kool Herc ha fatto l’11 agosto di cinquant’anni fa è stato epocale. Il rap è il primo genere musicale a diffusione mondiale costitutivamente fondato sull’incontro, su più livelli: perché nasce per far ballare e per creare comunità e perché come Herc ha scelto i pezzi soul della tradizione dei genitori chiunque può usare la musica che più gli piace come strumentale.

Si può fare rap partendo da qualsiasi insieme di note, dal neomelodico napoletano passando per il metal e il reggae fino all’elettronica. Basta che ci sia il loop e che ci si possa rappare sopra. Il fulcro è l’incontro di chi fa il rap, DJ o MC che sia, con ciò che lo fa esprimere. Il rap ha dato dignità all’intrattenimento: sin dagli albori è nato per coniugare relax e divertimento con l’unità tra le persone. Assistendo alle competizioni di freestyle si sente un clima di rispetto e appartenenza al di là delle differenze molto raro. Questo perché c’è un terzo elemento fondante del rap: l’identità. Come forma artistica esso nasce per raccontare la vita dei neri del Bronx, sia con i suoni che con la voce.

Questa vocazione all’espressione di storie collettive, ma anche personali, è ciò che ha consentito al rap di radicarsi in tutti gli angoli del mondo. Potendo scegliere lo sfondo musicale e i temi da trattare, ogni popolo ha rielaborato questo genere secondo le proprie inclinazioni. Non c’è rap senza comunità.

Incontro, intrattenimento, identità: questa è l’anima del rap,  che gli ha consentito di influenzare musica, società e cultura in tutto il mondo. E che anche dopo cinquant’anni gli danno una capacità attrattiva potentissima.

Saverio Necchi

2 pensieri su “Incontro, intrattenimento, identità: cinquant’anni di rap

  1. Pingback: Incontro, intrattenimento, identità: cinquant’anni di rap – Black Stems

Lascia un commento