Loro, gli eroi dimenticati dalla Storia

Giuseppe, meglio conosciuto come Bepi, è un coltivatore diretto nato nel 1915. Si sveglia la mattina all’alba, al canto del gallo, e si concede una leggera colazione bevendo, con l’orzo, il latte delle sue vacche. Uno sguardo alle galline, i tacchini, i pavoni, le colombe e i maiali, ed è pronto per prendere la bici per andare in campagna, dove ha dei rigogliosi campi coltivati a frumento, granoturco e tabacco.

Per lui non esistono feste, domeniche o vacanze: la sua vita è il lavoro, scandito dai cicli biologici della natura. Di politica non s’interessa: la ritiene una perdita di tempo. Sa solo che da qualche anno c’è un tizio pelato che di tanto in tanto fa qualche discorso da un balcone romano, e che da quando c’è lui i treni arrivano in orario. Ma nient’altro: quando lo intimano a farsi la tessera per comprare il pane, lui rifiuta. Essendo un contadino, infatti, il necessario per vivere se lo produce da sé.

Un giorno gli arriva una raccomandata: la Patria ha bisogno di lui. E così lascia la sua casa con il padre anziano e la moglie sposata da poco, per andare in città e salire su quel treno pieno di soldati.

Si trova a Sesana, in Venezia-Giulia, a gestire un magazzino d’armi. Qui conduce una vita appartata, isolata, scandita dagli ordini dei superiori. Molti sono italiani, altri stranieri. Alti, biondi, robusti, e con gli occhi azzurri: sono severi, e non sorridono mai.

Un proclama alla radio, e inizia il caos: volete-stare-con-noi-o-rimanere-fedeli-al-vostro-re? Molti promettono di rimanere con loro, con i biondi. Lui, invece, è categorico: rimango-fedele-al-Re. E così viene destituito, ammanettato, e scaraventato in un vagone da bestiame per affrontare un viaggio di sei giorni, senza acqua e senza cibo.

Viene condotto in una terra fredda, senza vita, dove il gelo perfora le ossa. Uscire da quel posto pare impossibile: ci sono torri di controllo, mura alte e spinate, e quei biondi capeggiano ovunque con le loro armi. E nell’aria si sente sempre questo insopportabile puzzo di bruciato. Esce da laggiù: da quelle esili ciminiere.

La sua cuccetta si trova in un piccolo capanno abitato esclusivamente da italiani. Fra loro fanno fatica a capirsi, a causa della diversità culturale e linguistica. Lui, essendo veneto, stringe amicizia con uno di Mantova, con cui riesce bene o male ad intendersi. Poi ci sono i meridionali, ma con loro non ci sono contatti perché, appena arrivati, gli italiani sono stati divisi in due settori diversi: il Nord da quella parte, per lavorare nella fabbrica, e il Sud da quell’altra, per lavorare nei campi.

Lui è fortunato: essendo uno dei pochi ad avere il diploma di quinta elementare, e sapendo quindi fare di conto, è impiegato negli uffici contabili.

Un pugno di pane nero alla sera, e questo è il pasto per tutta una giornata passata a lavorare. A volte ci si accorda: chi è scelto dalla sorte, prova ad uscire dal capanno per raggiungere quella dispensa poco vicina.

Alcune sere capita a lui. E così deve passare rasente al muro, per poi continuare imbucandosi in uno stretto cunicolo per non farsi vedere. E là c’è il paradiso: chili di pane raffermo e, addirittura, le tanto sognate kartoffeln. Lui c’è sempre riuscito. Altri no: una scarica di mitra, e poi il silenzio.

Una notte, però, uno di quei biondi entra nella loro stanza, e con tono autoritario li conduce in una delle zone più remote del campo. Ma quel biondo, anziché accopparli, li fa scappare. “Weg, weg, weg! Renn weg!” Escono di corsa, scomparendo nel buio.

E così inizia quell’odissea percorsa tra foreste, campi deserti, paesi devastati, fiumi di sangue, praterie desolate. E poi ancora boschi, e poi le montagne. E il freddo, e il gelo, e un viaggio che non vede mai la fine. Mangiano quello che trovavano come bacche, radici, funghi. E soprattutto lumache.

Due mesi di viaggio, e riesce a ritornare a casa sua che, nel frattempo, è diventata il quartier generale locale dei biondi. Al suo interno c’è ancora il padre anziano, la sorella e la moglie: servi in casa loro, al servizio dei nuovi padroni.

Ma quella è la sua casa, la sua famiglia: guai a chi gliela tocca. Il Bepi imbraccia il suo fucile da caccia, e nel giro di poco tempo, anche favorito dall’imminente fine della guerra, riesce a ritornare padrone della sua vita.

Muore a ottantadue anni, lavorando, mentre spacca la legna.

Quest’uomo, per me, non è il Bepi, ma il nonno Bepi: padre di mia nonna, che è nata dopo la guerra. Se non fosse stato per quel biondo che lo liberò dal campo di concentramento, e se lui non avesse trovato le forze per raggiungere a piedi la sua casa in Veneto dalla Germania del Nord tra rappresaglie e bombardamenti, mia nonna non sarebbe nata. Ed io, a quest’ora, non sarei qui a raccontarti questa storia.

E per questo, il Nonno Bepi, è un eroe. Sì: uno di quei tanti eroi che la Storia ignora, che non fanno notizia perché non hanno mai raccontato pubblicamente le loro storie. Anche con la famiglia è sempre stato molto parco: quello che ti ho appena raccontato è il poco che sappiamo di quei due anni in Germania.

Non sappiamo neanche con certezza in quale campo di concentramento è stato internato. Presumibilmente, dalle sue descrizioni, era quello di Neumengamme, ad Amburgo, non troppo distante dal mare che diceva d’aver visto dai buchi del vagone del treno.

L’unica cosa che ci rimane da fare, a noi, è parlare di loro. Ringraziarli per i loro sacrifici. E tenere memoria dei piccoli, immensi, gesti, di questi piccoli, ma immensi, eroi.

Alessandro Frosio

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